Quando raggiungi una cima, puoi fermarti, goderti il successo e pensare al prossimo traguardo.
Oppure puoi guardarti indietro e tendere la mano per aiutare qualcun’altro a salire con te.
Nei giorni scorsi c’è stata una notizia che ha sollevato forti polemiche.
Radio24 ha concesso ad alcune scuole medie l’accesso ai suoi studi nell’ambito di un’attività proposta da alcuni istituti per insegnare agli studenti a creare un podcast.
Purtroppo la visita all’emittente era limitata a 15 posti, non sufficienti per una classe intera. Il caso è salito agli onori delle cronache per la presa di posizione della famiglia di un ragazzo di Torino escluso dall’attività.
L’esclusione è derivata dal fatto che il consiglio di classe ha deciso che all’attività avrebbero partecipato i ragazzi con i voti più alti.
Così è stato escluso un ragazzo disgrafico. Insieme ad altri 6 compagni tra cui 2 ragazzi con caratteristiche DSA ed un ipovedente.
Su La Stampa veniva riportata anche l’intervista a Pietro Nigro, professore della Baricco, una delle altre due scuole torinesi invitate a partecipare alla formazione da Radio 24: “abbiamo selezionato sulla base dell’interesse al progetto, dell’impegno dimostrato e della capacità di collaborazione con gli altri. Abbiamo penalizzato chi si è disinteressato all’attività”.
Conosco Pietro. Non è un professore: è un Insegnante.
Se sei un professore lo stabilisce un concorso. Se sei un insegnante lo decide il tuo cuore.
Se sei un insegnante la scelta tra le opzioni che ho scritto nelle prime due righe l’hai fatta chiaramente.
Come ho già avuto modo di scrivere, le etichette non servono.
La preside della scuola “incriminata” dice che la sua è una scuola da sempre inclusiva. E lei è anche attiva politicamente in un partito che propugna l’inclusività tra i valori fondamentali.
Ma le parole e le etichette non servono. Sono i fatti a parlare.
C’è un punto a mio modo di vedere fondamentale che occorre tenere in considerazione.
Una società (in senso sociologico, economico, sportivo …) non può essere più forte e resiliente di quanto lo è il suo anello più debole.
Che tu sia un insegnante, un manager o un allenatore se vuoi rendere il tuo team più forte devi prenderti cura degli anelli più deboli.
Degli elementi che faticano di più per supportarli ed elevarli quanto più possibile.
Per far ciò una delle prime cose, se non la prima, che devi fare è creare un clima collaborativo in cui siano i più “forti” in primis a capire quanto sia importante aiutare i più “deboli”.
Il leader a volte deve anche mettere i più bravi in secondo piano.
Nella mia attività da coach (di basket) mi capitava spesso di sentire rivolgere un sacco di complimenti a chi segnava molti punti, a chi faceva dei begli assist.
Senza sottolineare il contributo delle “seconde linee”.
In questi giorni è iniziato il Giro d’Italia. Poi ci sarà il Tour de France.
200 corridori si massacrano i muscoli per settimane, ma i candidati alla vittoria si contano sulle dita di una mano. Questo si ripete anno dopo anno.
Il capitano, cui la squadra si dedica per cercare di portarlo al trionfo, è la star. Generalmente beneficia di importanti ingaggi e sponsorizzazioni a fronte di guadagni molto inferiori dei gregari.
É prassi che il vincitore di queste importanti gare rinunci al premio economico affinché sia suddiviso tra i suoi compagni, senza i quali il successo sarebbe stato impossibile.
Verrebbe da chiedersi: “Perché rinunciare a dei soldi che si sono meritati?” Per due motivi. Uno per dire grazie.
Due perchè non c’è bisogno di quella ulteriore sottolineatura per dimostrare quanto si è migliori.
Non c’è bisogno di dire a chi fa tanti punti o a chi ha voti alti che è bravo. Lo sa già. E lo sanno i suoi compagni.
Ovvio che anche ai “bravi” è giusto dare riconoscimenti, ci mancherebbe.
É allo stesso tempo molto più importante sottolineare, insistentemente, i meriti di chi sta in seconda fila.
Chi fa pochi canestri, chi non vince, chi non prende 9 o 10 ha più bisogno di sentirsi dire “bravo!”.
Ha più bisogno di capire che anche lui può arrivare in alto. Allo stesso modo va incoraggiato nel momento di difficoltà.
Questa è inclusione. Questo migliora i team. Questo migliora la società. Questo migliora le relazioni.
Il 10 aprile 1975 ad Anversa, si giocava la finale della coppa dei Campioni di basket tra Ignis Varese e Real Madrid.
Il Real Madrid era la squadra più forte in assoluto e stra-favorita. In più per Varese pesava moltissimo l’assenza del grande Dino Meneghin. Come se non bastasse il forte americano Yelverton uscì per 5 falli ad inizio secondo tempo.
La partita sembrava segnata e la coppa destinata a Madrid.
Ma a 13 minuti dalla fine, improvvisamente, sale in cattedra Sergio Rizzi, un 18enne italiano che, con zero esperienza e pochissimi minuti in stagione, nella finale di coppa dei Campioni era stato chiamato a sostituire uno dei giocatori più forti d’Europa: Dino Meneghin.
Rizzi segna 13 punti nei 13 minuti finale, il Real è limitato a soli 66 punti e Varese è per la quarta volta campione d’Europa.
Quel ragazzino, eroe per una notte, viene ribattezzato “L’Eroe di Anversa”.
Sergio Rizzi, a sorpresa, è il protagonista di una delle partite più importanti nella storia della pallacanestro italiana.
Varese avrebbe trionfato se il giovane Rizzi non fosse stato messo nelle condizioni di crescere con la squadra?
E si badi che Rizzi non era una giovane futura stella. Era uno di tanti, che poi ebbe una carriera da gregario. Eppure il mondo del basket ancora oggi ricorda l’Eroe di Anversa.
Non c’è differenza tra la scuola, un’azienda o una squadra.
La realtà che si manifesta è una e semplice: la società è più forte e la vita è migliore se la trascorri aiutando gli altri.