La scorsa settimana si è giocato il derby di calcio tra Roma e Lazio.
Ne è scaturito un evento che ha fatto discutere, relativo alla modalità con cui ha esultato il calciatore della Roma autore del gol della vittoria. Tale esultanza sarebbe stata, secondo alcuni, irrispettosa.
Alcuni giorni dopo il Presidente della Lazio ha dichiarato: “Un giocatore della Lazio non lo avrebbe fatto mai, il comportamento dei nostri giocatori è completamente diverso da quello delle altre squadre”.
Magari fosse così semplice …
Praticamente significherebbe che basta creare un’entità ricca di valori positivi, poi prendere le persone e dire loro che fanno parte di quella entità (come avviene con la campagna acquisti), per trasformarle in soggetti virtuosi.
Il tema della rivalità e dell’identità è molto presente nello sport.
Non conosco bene la realtà di Roma ma, in ambito calcistico, conosco bene quella di Torino dove si è quasi sempre manifestata una supremazia della Juve sul Toro.
Per un lungo periodo però la squadra granata è stata connotata da quello che i suoi tifosi hanno ribattezzato “cuore granata”, una sorta di predisposizione alla lotta indomita.
Così in svariate occasioni, a dispetto di una previsione sulla carta differente, i derby venivano vinti dal Toro, grazie alla maggior carica agonistica che metteva in campo nelle sfide dirette contro la rivale sabauda.
Insomma, la Juve era la squadra dotata di tecnica, il Golia dello scontro.
Il Toro però era il Davide, non per astuzia mitologica, ma per grinta.
Ora negli ultimi anni questo è cambiato.
La Juve ha vinto diversi derby segnando negli ultimi minuti di gioco e, fino a 2-3 anni fa, era conosciuta come una squadra che non mollava mai, caratteristica che le è valso il motto “fino alla fine”.
E quindi? Come è possibile questa inversione di caratteristiche?
Perché i giocatori del Toro, simbolo della voglia di non arrendersi, sono diventati meno coriacei di quelli della Juve? C’è stato forse uno scambio di colori delle maglie?
Ovviamente no.
Il motivo è molto semplice: non è sufficiente indossare una maglia, far parte di un’associazione, seguire una religione, entrare in un partito per acquisirne i valori ed i pregi.
Il nostro cervello cerca sempre scorciatoie perché vuole risparmiare energie e quindi apprezza chi è simile.
Ed allora chi fa parte del mio stesso gruppo è ritenuto in qualche modo migliore di chi non ne fa parte.
Ma questa è appunto una semplificazione, un bias che può portare a valutazioni molto sbagliate.
L’esempio del Toro è molto interessante per analizzare il gruppo e il senso di appartenenza.
La storia del Toro non nasce grazie a grandi vittorie. O meglio … anche. Ma in realtà non sarebbero bastate.
La storia del Toro nasce da uno di quegli eventi che segnano uno spartiacque: c’è un prima e c’è un dopo.
E la lettura che si dà del prima è influenzata dallo spartiacque.
In questo caso chiaramente il momento di separazione coincide con la tragedia di Superga. Da quel momento la storia di trionfi sportivi del Torino è diventata mito, mito che resta immutato oggi nel cuore dei tifosi ma, è evidente, non in campo.
Attorno al ricordo degli invincibili si è creato un legame forte, in una certa misura sintetizzato nella figura del loro straordinario Capitan Valentino, da un simbolo (la maglia granata) e due luoghi: il campo di Via Filadelfia (il “Fila”) e la Basilica di Superga dove l’aereo che trasportava il Grande Torino si schiantò nel 1949.
Soprattutto il Fila è diventato una sorta di tempio, dedicato agli allenamenti ed al settore giovanile e quindi a creare un certo imprinting nei giovani calciatori, il “cuore granata”.
I simboli ed i luoghi cementano le tradizioni e creano il senso di appartenenza.
Il senso di appartenenza si è mantenuto per molto tempo, elemento che ha fatto sì che fosse percepito fortemente anche nella prima squadra.
I calciatori “esterni”, non cresciuti a Torino, venivano intrisi dello spirito del Toro, trasmesso loro da chi nel Toro ci era nato e cresciuto.
Era un qualcosa di tanto forte da essere inevitabile.
Nel tempo però il legame si è annacquato.
A partire dal Fila che, essendo stato chiuso a lungo, non ha più rappresentato un simbolo importante ed i nuovi campi di allenamento non lo potevano diventare perché non avevano mai visto giocare sulla loro erba gli “Invincibili”.
Poi è cambiato il calcio. Il settore giovanile del Toro non porta più molti giocatori in prima squadra, che ora è composta per la stragrande maggioranza da stranieri.
Questo rende inevitabile che non ci sia legame con la tradizione della squadra.
Non è sufficiente consegnare a questi giocatori la maglia del Toro per fargli sentire battere il cuore granata perché non c’è in loro un imprinting.
C’è poco da fare.
La realtà è che i calciatori che arrivano a indossare la maglia granata dalle più svariate parti del mondo magari conoscevano Torino per essere la città della più famosa Juventus.
Se non fosse per la Juve probabilmente non conoscerebbero la nostra città (a meno magari di essere appassionati di storia egizia). E del Grande Torino, come del grande Manchester, non sanno nulla.
All’interno della squadra, entità che trae la sua essenza dalla condivisione di valori, obiettivi ed aspettative, il senso di appartenenza è fondamentale.
In una squadra sportiva, come in un’azienda, il momento dell’assunzione (o dell’ingaggio) è troppo spesso conseguenza solo della valutazione delle capacità del candidato e molto meno delle sue motivazioni.
La conseguenza qual è? Che il leader si trova in difficoltà a motivare il suo team.
Al momento della selezione avrebbe anche dovuto porsi la domanda:” Come faccio a creare un team motivato?”.
Questo tema è alla base del passaggio chiave da gruppo a squadra.
Per creare una squadra non è necessariamente utile andare a caccia dell’elemento più forte, ma selezionare il più adatto al contesto.
Questo anche in virtù del fatto che è molto più facile insegnare un lavoro ad una persona motivata che ottenere risultati da una persona capace ma poco motivata.
Trasformare un gruppo esistente in una squadra è un’impresa molto più difficile che selezionare il gruppo di persone idonee a creare una squadra.
Soprattutto se la selezione è palesemente sbagliata, la trasformazione risulta pressoché impossibile ed il risultato molto lontano dalle aspettative.
Pensa a quei casi nello sport in cui squadre create con obiettivi ambiziosi si sono poi invece trovate a navigare in inattese paludi.
Certo la selezione non è banale, necessita della giusta sensibilità, e si rivela tanto più difficile quanto poco misurabili sono i criteri su cui si basa.
Per esempio, la squadra dell’Athletic Bilbao tessera solo giocatori baschi o con nonni o genitori baschi. In questo caso la selezione è facile: o hai un documento i cui si attestano le tue origini basche o non lo hai.
Capire se un calciatore è “da Toro” è meno semplice …
Ma è una valutazione fondamentale, per il Toro come per l’azienda di 20 dipendenti che fa tornitura di precisione o per il produttore di vino con pochi ettari di vigna.
A questo punto occorrerebbe parlare dei perché.
Spesso il padrone della società o il leader che la guida non ha ben chiaro perché fa ciò che fa!
E questo è un primo grosso problema: non conoscere la motivazione profonda che spinge a creare un’azienda, ad allenare una squadra, a voler gestire un team.
Il secondo è che ogni soggetto che gravita attorno a un team (proprietà, soci, atleti, dipendenti, fan …) vuole perseguire il suo perché.
Questo è legittimo, inevitabile e sacrosanto.
Affinchè le cose funzionino occorre accertarsi che tutti abbiano un perché coerente con il tuo.
Non necessariamente lo stesso “perché” ma almeno un perché il cui perseguimento contribuisca anche al soddisfacimento del tuo.
Tornando all’esempio del Bilbao, se la dirigenza avesse raggiunto un grande successo, grazie all’acquisto di campioni non baschi, probabilmente la cosa non sarebbe stata apprezzata dai tifosi.
I tifosi sono tifosi ed ovviamente vogliono vedere la loro squadra vincere. Ma il sondaggio ha dato un messaggio chiaro: non siamo disposti a sacrificare la nostra identità per una vittoria!
Un dipendente o un atleta ha il dovere di dare il suo meglio. Fatto questo ha messo sulla bilancia la sua parte ed ha esaurito i suoi doveri.
E se deciderà di cambiare team, sarà libero di farlo senza debito alcuno.
Nessuno ha il diritto di criticare i desideri ed i sogni altrui e magari parlare di tradimento. Se qualcuno lo fa con te non permetterglielo!
E non farlo tu!
Non abbiamo il diritto di costruire gabbie fisiche o morali per reprimere i desideri di un’altra persona e se desideriamo avere un team di successo dobbiamo creare le condizioni giuste affinché ogni elemento possa soddisfare i propri sogni.