Sono le piccole cose
a rendere grandi le persone

Renato

Sono le piccole cose
a rendere grandi le persone

Renato

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Chi sono

Ingegnere elettronico per formazione … Coach da tutta la vita.

Sono uno Sport e Business Coach con una prima “vita” da coach di basket. Le mia esperienza di atleta e di allenatore mi fanno comprendere i meccanismi e le relazioni che influenzano le prestazioni di un giocatore o di un team.

Sono un ingegnere esperto di sicurezza informatica in una Big Company, cosa che mi permette di conoscere i meccanismi decisionali ed organizzativi delle aziende, i limiti e quindi le strade da percorrere per superarli.

Un papà … che ha imparato dagli errori e che ha lavorato per imparare a relazionarsi in modo utile ed emotivamente appagante con i figli, aiutandoli a esprimere il enorme potenziale.

Ingegnere elettronico per formazione … Coach da tutta la vita.

 

Sono uno Sport e Business Coach con una prima “vita” da coach di basket. Le mia esperienza di atleta e di allenatore mi fanno comprendere i meccanismi e le relazioni che influenzano le prestazioni di un giocatore o di un team.

 

Sono un ingegnere esperto di sicurezza informatica in una Big Company, cosa che mi permette di conoscere i meccanismi decisionali ed organizzativi delle aziende, i limiti e quindi le strade da percorrere per superarli.

 

Un papà … che ha imparato dagli errori e che ha lavorato per imparare a relazionarsi in modo utile ed emotivamente appagante con i figli, aiutandoli a esprimere il enorme potenziale.

Some people want it to happen,
some wish it would happen,
others it make it happen

Michael Jordan

La mia storia

Agli inizi degli anni ’90 ero un giovane allenatore di basket e non mi perdevo mai un’occasione per imparare da allenatori più esperti.

Andavo a corsi, eventi, seguivo gli allenamenti di coloro che sapevo migliori di me: solo così sarei potuto diventare il futuro Pat Riley, il celebre allenatore dei Los Angeles Lakers dello showtime, di Magic Johnson e Kareem Abdul Jabbar, tanto abile come coach quanto elegante nei suoi abiti firmati.

 

Ripensando a quegli anni mi ricordo anche di come mi resi ridicolo andando in panchina in giacca e cravatta.

 

Comunque … ero avido di apprendimento.

 

Le nozioni tecniche si potevano imparare anche dai libri o dalle riviste, ma ero particolarmente incuriosito dalle lezioni diverse.

Andavo a corsi, eventi, seguivo gli allenamenti di coloro che sapevo migliori di me: solo così sarei potuto diventare il futuro Pat Riley, il celebre allenatore dei Los Angeles Lakers dello showtime, di Magic Johnson e Kareem Abdul Jabbar, tanto abile come coach quanto elegante nei suoi abiti firmati.

 

Ripensando a quegli anni mi ricordo anche di come mi resi ridicolo andando in panchina in giacca e cravatta.

 

Comunque … ero avido di apprendimento.

 

Le nozioni tecniche si potevano imparare anche dai libri o dalle riviste, ma ero particolarmente incuriosito dalle lezioni diverse.

Andavo a corsi, eventi, seguivo gli allenamenti di coloro che sapevo migliori di me: solo così sarei potuto diventare il futuro Pat Riley, il celebre allenatore dei Los Angeles Lakers dello showtime, di Magic Johnson e Kareem Abdul Jabbar, tanto abile come coach quanto elegante nei suoi abiti firmati.

 

Ripensando a quegli anni mi ricordo anche di come mi resi ridicolo andando in panchina in giacca e cravatta.

 

Comunque … ero avido di apprendimento.

 

Le nozioni tecniche si potevano imparare anche dai libri o dalle riviste, ma ero particolarmente incuriosito dalle lezioni diverse.

Quelle in cui non si parlava di tiro o palleggio, bensì di metodologia o, addirittura, di psicologia. 

Ero affascinato dai racconti di coloro che erano in grado di “tirare fuori” il massimo dai loro giocatori. 

Forse cercavo un trucco, un modo che mi permettesse di trionfare con la mia squadra contro avversari più forti. Esattamente non lo so.

Poi successe una cosa, che stimolò ancora di più quella mia curiosità.

Era la sera di lunedì 26 aprile del 1993.

Le facce dei ragazzi, mentre tiravano stancamente a canestro, dicevano che avrebbero voluto essere ovunque tranne che in palestra ad allenarsi.

Quelle in cui non si parlava di tiro o palleggio, bensì di metodologia o, addirittura, di psicologia. 

 

Ero affascinato dai racconti di coloro che erano in grado di “tirare fuori” il massimo dai loro giocatori. 

Forse cercavo un trucco, un modo che mi permettesse di trionfare con la mia squadra contro avversari più forti. Esattamente non lo so.

 

Poi successe una cosa, che stimolò ancora di più quella mia curiosità.

Era la sera di lunedì 26 aprile del 1993.

 

Le facce dei ragazzi, mentre tiravano stancamente a canestro, dicevano che avrebbero voluto essere ovunque tranne che in palestra ad allenarsi.

La mattina prima eravamo a Rimini e la sera tornavamo a Torino con il titolo italiano delle Polisportive Giovanili Salesiane. 


Ma ormai era passato. Sabato ci sarebbe stata un’altra partita di campionato.


Quella sera i palloni volavano a casaccio da una parte all’altra del campo e la corsa era uno stanco trotterellare. 

La mattina prima eravamo a Rimini e la sera tornavamo a Torino con il titolo italiano delle Polisportive Giovanili Salesiane. 

Ma ormai era passato. Sabato ci sarebbe stata un’altra partita di campionato.

 

Quella sera i palloni volavano a casaccio da una parte all’altra del campo e la corsa era uno stanco trotterellare. 

Era inutile continuare e mandammo i ragazzi a fare la doccia. In definitiva non fui in grado di far allenare la mia squadra.

Mi sono in seguito chiesto cosa fosse successo. 

Cosa avrei potuto fare per ottenere dai ragazzi ciò che volevo?

Come avrei potuto avere quella reazione che leggi nelle interviste dei grandi campioni che dicono che il giorno dopo una vittoria si allenano ancora di più per prepararsi al meglio ad una nuova sfida?

Era inutile continuare e mandammo i ragazzi a fare la doccia. In definitiva non fui in grado di far allenare la mia squadra.

 

Mi sono in seguito chiesto cosa fosse successo. 

Cosa avrei potuto fare per ottenere dai ragazzi ciò che volevo?

 

Come avrei potuto avere quella reazione che leggi nelle interviste dei grandi campioni che dicono che il giorno dopo una vittoria si allenano ancora di più per prepararsi al meglio ad una nuova sfida?

La risposta arrivò nel 1996 dal computer con cui preparavo la mia tesi di laurea al Politecnico di Torino.

 

Il Poli era collegato ad una nuova tecnologia, Internet, dove si potevano andare a cercare informazioni di ogni tipo e fu lì che mi imbattei in un libro: Rendere al massimo – Le tecniche di training mentale dei più grandi atleti del mondo di Charles Garfield, un ex-atleta statunitense professore di Psicologia.

 

E quello fu l’inizio del mio percorso per diventare uno Sport Coach.

La risposta arrivò nel 1996 dal computer con cui preparavo la mia tesi di laurea al Politecnico di Torino.

 

Il Poli era collegato ad una nuova tecnologia, Internet, dove si potevano andare a cercare informazioni di ogni tipo e fu lì che mi imbattei in un libro: Rendere al massimo – Le tecniche di training mentale dei più grandi atleti del mondo di Charles Garfield, un ex-atleta statunitense professore di Psicologia.

 

E quello fu l’inizio del mio percorso per diventare uno Sport Coach.

Ho poi scoperto che quella serata del 1993 racchiudeva due insegnamenti alla base del coaching.

 

Il primo è l’importanza dell’esempio: ricordo perfettamente che io ero il primo che avrebbe voluto essere altrove. Come potevo chiedere ai ragazzi di allenarsi con intensità?

 

Il secondo è che la mente può e deve essere allenata quanto il nostro fisico: “essere scarichi” non è una scusa che gli allenatori professionisti a volte accampano di fronte a sciagurate debacle: è una realtà.

 

Avevamo conquistato un risultato per il quale ci eravamo duramente allenati. Ed ora eravamo “scarichi”. Non c’era stanchezza fisica eppure quella sera i ragazzi non riuscivano a correre!

 

Non ci riuscivano perché nonostante le loro gambe fossero allenate, il loro cervello non lo era.

Ho poi scoperto che quella serata del 1993 racchiudeva due insegnamenti alla base del coaching.

Il primo è l’importanza dell’esempio: ricordo perfettamente che io ero il primo che avrebbe voluto essere altrove. Come potevo chiedere ai ragazzi di allenarsi con intensità?

Il secondo è che la mente può e deve essere allenata quanto il nostro fisico: “essere scarichi” non è una scusa che gli allenatori professionisti a volte accampano di fronte a sciagurate debacle: è una realtà.

Avevamo conquistato un risultato per il quale ci eravamo duramente allenati. Ed ora eravamo “scarichi”. Non c’era stanchezza fisica eppure quella sera i ragazzi non riuscivano a correre!

Non ci riuscivano perché nonostante le loro gambe fossero allenate, il loro cervello non lo era.

Un coach è qualcuno che può correggerti
senza causarti risentimento

John Wooden

La mia vita intanto è proseguita.

Nel passare dallo status di studente a quello di lavoratore ho anche trascorso un anno molto utile e formativo servendo l’Arma del Carabinieri.

Ho iniziato la mia carriera lavorativa da ingegnere alla fine degli anni ’90 in una grande struttura di ricerca.

In azienda si dava una grande importanza alle relazioni umane e la disponibilità alla condivisione delle idee e delle conoscenze era una prassi consolidata. Ma era in corso un cambiamento epocale: molti giovani venivano assunti e nuove metodologie di gestione, organizzazione e motivazione del personale trovavano la loro prima applicazione.

La mia vita intanto è proseguita.

 

Nel passare dallo status di studente a quello di lavoratore ho anche trascorso un anno molto utile e formativo servendo l’Arma del Carabinieri.

 

Ho iniziato la mia carriera lavorativa da ingegnere alla fine degli anni ’90 in una grande struttura di ricerca.

 

In azienda si dava una grande importanza alle relazioni umane e la disponibilità alla condivisione delle idee e delle conoscenze era una prassi consolidata.

 

Ma era in corso un cambiamento epocale: molti giovani venivano assunti e nuove metodologie di gestione, organizzazione e motivazione del personale trovavano la loro prima applicazione.

Un giorno ricevetti una telefonata da un collega che mi chiedeva informazioni in merito ad una tecnologia di cui però non mi occupavo. 

 

Seguendo quella che era la “vecchia” prassi lo indirizzai all’esperto in materia: un amico e collega che faceva parte del mio stesso team.

 

Dopo circa un’ora l’amico mi chiamò per dirmi che non avrei dovuto coinvolgerlo perché dare questo tipo di supporto non rientrava tra gli obiettivi che gli erano stati assegnati.

 

Il refrain del momento era “lavorare per obiettivi” e tutto ciò che non rientrava tra questi costituiva solo una fonte di disturbo. Cosa che di per sé non è né giusta né sbagliata.

È il modo in cui le persone applicano il concetto che lo rende più o meno funzionale: i dipendenti devono essere stimolati a tenere i comportamenti che producono i maggiori benefici per l’azienda.

Ma se l’azienda stessa li spinge a focalizzarsi in primis verso loro stessi allora si crea un corto circuito nocivo.

Ripensando a quel periodo mi torna in mente una frase che ripete spesso Alessandro Mora durante i corsi, quando insegna ai futuri coach come applicare tecniche del cambiamento: “Non sono le tecniche a cambiare le persone, sono le persone a cambiare le persone”. E lo stesso vale per il business e le aziende.

Le tecniche, le metodologie, le strategie sono utili ed importanti.

Da sole non sono sufficienti.


Ciò che più conta è lo spirito che anima chi ha il compito di guidare. Ciò che conta è l’ispirazione, il contributo, il valore che la guida vuole dare, sia che si tratti di darla ad un singolo, ad un gruppo di progetto, ad un team o ad una ampia divisione aziendale.

Lavorare in una grande azienda è una bella palestra per conoscere le dinamiche che si possono creare e per imparare a gestirle nel modo più utile e funzionale per i dipendenti e per l’azienda stessa.

Nel tempo mi è stato sempre più evidente come chiarezza, trasparenza, esempio e visione siano elementi fondamentali nella gestione e direzione di un team di lavoro.

È il modo in cui le persone applicano il concetto che lo rende più o meno funzionale: i dipendenti devono essere stimolati a tenere i comportamenti che producono i maggiori benefici per l’azienda.

 

Ma se l’azienda stessa li spinge a focalizzarsi in primis verso loro stessi allora si crea un corto circuito nocivo.

 

Ripensando a quel periodo mi torna in mente una frase che ripete spesso Alessandro Mora durante i corsi, quando insegna ai futuri coach come applicare tecniche del cambiamento: “Non sono le tecniche a cambiare le persone, sono le persone a cambiare le persone”.

E lo stesso vale per il business e le aziende.

 

Le tecniche, le metodologie, le strategie sono utili ed importanti.

Da sole non sono sufficienti.

 

Ciò che più conta è lo spirito che anima chi ha il compito di guidare.

 

Ciò che conta è l’ispirazione, il contributo, il valore che la guida vuole dare, sia che si tratti di darla ad un singolo, ad un gruppo di progetto, ad un team o ad una ampia divisione aziendale.

 

Lavorare in una grande azienda è una bella palestra per conoscere le dinamiche che si possono creare e per imparare a gestirle nel modo più utile e funzionale per i dipendenti e per l’azienda stessa.

 

Nel tempo mi è stato sempre più evidente come chiarezza, trasparenza, esempio e visione siano elementi fondamentali nella gestione e direzione di un team di lavoro.

Nel frattempo c’era un altro team che stava nascendo e crescendo: la mia famiglia, che per due anni è stata composta solo da me e Valeria.

Già vivere in due non è semplice. Non siamo abituati, non siamo preparati ad una vita insieme ad un pari. 

 

Abbiamo vissuto con i nostri genitori, magari con fratelli o sorelle, ma non è la stessa cosa.

 

Poi nel 2002 è arrivato Sergio, che mi ha battezzato papà e nel 2008 finalmente è arrivata anche Diana.

E la situazione è diventata ancora più complicata, meravigliosa e complicata.

Nel frattempo c’era un altro team che stava nascendo e crescendo: la mia famiglia, che per due anni è stata composta solo da me e Valeria.

Già vivere in due non è semplice. Non siamo abituati, non siamo preparati ad una vita insieme ad un pari. 

 

Abbiamo vissuto con i nostri genitori, magari con fratelli o sorelle, ma non è la stessa cosa.

 

Poi nel 2002 è arrivato Sergio, che mi ha battezzato papà e nel 2008 finalmente è arrivata anche Diana.

E la situazione è diventata ancora più complicata, meravigliosa e complicata.

Improvvisamente ci siamo trovati a gestire situazioni e ad avere responsabilità per le quali non avevamo avuto nessun insegnamento, solo la guida, l’esempio dei nostri genitori.

 

Abbiamo fatto del nostro meglio: abbiamo sbagliato tanto, corretto il tiro, sbagliato ancora e ancora corretto il tiro.

 

Sicuramente con Sergio abbiamo fatto errori che con Diana non abbiamo ripetuto, altrettanto sicuramente con Diana abbiamo fatto errori che con Sergio non avevamo fatto, perché ogni bambino è un universo a sé, con le sue caratteristiche e questo ti dà l’opportunità di sbagliare alla grande anche dove pensi di aver imparato la lezione e di … imparare alla grande!

 

Ho imparato che puoi solo condurre la tua vita familiare come un continuo esperimento. Provi e vedi come va. Se funziona è ok, altrimenti cambi. 

 

Non è necessariamente un cattivo approccio. Abbiamo le lampadine in casa grazie al fatto che Thomas Edison ha fallito 1000 volte e 1000 volte ha imparato qualcosa dai suoi fallimenti.

 

Tuttavia non sarebbe più bello se la nostra vita familiare fosse fatta del maggior numero possibile di momenti belli e di pochi momenti migliorabili?

 

Attraverso lo studio della comunicazione efficace ho imparato ad evitare tanti equivoci che creano discussioni inutili. L’acquisizione delle giuste strategie mi ha permesso di vivere con più serenità gli scambi di vedute, trasformandoli in momenti di confronto e non in litigate come spesso succedeva prima.

Improvvisamente ci siamo trovati a gestire situazioni e ad avere responsabilità per le quali non avevamo avuto nessun insegnamento, solo la guida, l’esempio dei nostri genitori.

Abbiamo fatto del nostro meglio: abbiamo sbagliato tanto, corretto il tiro, sbagliato ancora e ancora corretto il tiro.

Sicuramente con Sergio abbiamo fatto errori che con Diana non abbiamo ripetuto, altrettanto sicuramente con Diana abbiamo fatto errori che con Sergio non avevamo fatto, perché ogni bambino è un universo a sé, con le sue caratteristiche e questo ti dà l’opportunità di sbagliare alla grande anche dove pensi di aver imparato la lezione e di … imparare alla grande!

 

Ho imparato che puoi solo condurre la tua vita familiare come un continuo esperimento. Provi e vedi come va. Se funziona è ok, altrimenti cambi. 

Non è necessariamente un cattivo approccio. Abbiamo le lampadine in casa grazie al fatto che Thomas Edison ha fallito 1000 volte e 1000 volte ha imparato qualcosa dai suoi fallimenti.

Tuttavia non sarebbe più bello se la nostra vita familiare fosse fatta del maggior numero possibile di momenti belli e di pochi momenti migliorabili?

 

Attraverso lo studio della comunicazione efficace ho imparato ad evitare tanti equivoci che creano discussioni inutili. L’acquisizione delle giuste strategie mi ha permesso di vivere con più serenità gli scambi di vedute, trasformandoli in momenti di confronto e non in litigate come spesso succedeva prima.

I nostri figli sono uno splendido dono da custodire. Sono una fonte enorme di gioie.

 

“E … ma quanti problemi ti danno!”, “Più crescono e più ci sono problemi”. “Goditi tuo figlio adesso, che quando crescerà non ti guarderà neanche in faccia”.

 

Questi sono solo alcuni esempi di luoghi comuni che “chi ci è già passato” a volte dispensa.

 

Chi ha detto che debba andare così? Chi ha detto che ciò che è stato per altri sarà anche per te?

 

La risposta è “nessuno!”. Tu sei unico. Tuo figlio è unico.

Quello che sarà il vostro rapporto non è determinato da quello che succede agli altri, bensì da quello che ti impegnerai a far succedere.

Il percorso che ho fatto mi ha portato a capire quali sono le dinamiche utili e quelle non utili nel rapporto con i figli. A stabilire quelle che sono davvero le priorità.

A comprendere cosa è necessario per farli crescere consapevoli e sicuri, insomma a prepararli alla vita, a camminare con le loro gambe.

E ciò che desidero è avere la possibilità di dare una mano ad ogni genitore che voglia svolgere il suo ruolo ancora meglio di quanto già certamente fa.

Quello che sarà il vostro rapporto non è determinato da quello che succede agli altri, bensì da quello che ti impegnerai a far succedere.

 

Il percorso che ho fatto mi ha portato a capire quali sono le dinamiche utili e quelle non utili nel rapporto con i figli. A stabilire quelle che sono davvero le priorità.

 

A comprendere cosa è necessario per farli crescere consapevoli e sicuri, insomma a prepararli alla vita, a camminare con le loro gambe.

 

E ciò che desidero è avere la possibilità di dare una mano ad ogni genitore che voglia svolgere il suo ruolo ancora meglio di quanto già certamente fa.

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