TOTÒ, IL BERNABEU E MORRICONE

Prima delle partite di calcio di questo fine settimana è stato ricordato Totò Schillaci, il calciatore italiano diventato famoso per le “Notti magiche” dell’estate 1990.

Schillaci è stato, nel calcio italiano, quello che era in campo. Un lampo.

La sua storia ad alto livello è stata breve, ma in quel breve ha scatenato la sua essenza emotiva.

Tanto che ieri è stato omaggiato anche nel tempio del calcio, il Santiago Bernabeu di Madrid, stadio che sta al calcio come il Teatro Colón di Buenos Aires sta alla lirica.

Accompagnato dalle note di “C’era una volta il West”, del maestro Morricone, il Real Madrid ha voluto omaggiare il campione siciliano.

Un amico mi ha detto di essersi commosso.

Ed allora la domanda è se ci si può commuovere per un giocatore di calcio con cui non si è mai neppure scambiata una parola?

La risposta ovviamente è si, anche se a molti può sembrare inconcepibile. Del resto c’è chi si emoziona davanti ad un quadro.

Ma vuoi mettere la Monna Lisa con Totò Schillaci? Attorno alla Monna Lisa ci puoi fare persino un film da Oscar, attorno a Schillaci al massimo ci metti Aldo Giovanni e Giacomo.

Il punto è che Aristotele ci ha insegnato che siamo animali sociali.

E questo ha fatto si che 34 anni fa ci si accalcasse nelle piazze avendo nella mente le gesta di una squadra la cui immagine era quella di un piccolo siciliano dagli occhi spiritati.

L’immagine di quegli occhi non ha bisogno del resto del viso per essere riconosciuta.

Le emozioni sono soggettive e ciò che le scatena non ha una valenza misurabile o confrontabile. Non importa se provengono da strofe in rima o da un’intervista in cui si parla di occasioni da gol “spruttate” (chi c’era in quegli anni ricorderà le prese in giro della Gialappa’s Band).

Succede così che la “comunità” del calcio celebri  chi ha dato a quella comunità stessa, un’emozione condivisa. Totò Schillaci, ed altri prima di lui, assumono così un ruolo iconico.

Totò Schillaci non ha significato al di fuori di questa comunità (a parte, ovviamente per le persone a lui legate), ma ogni comunità ha bisogno del suo Totò.

Questo fa la differenza tra organizzazioni che funzionano e prosperano e altre che faticano e magari falliscono.

Alcuni anni fa un noto ex-calciatore tentò il suicidio. Il suo letto di ospedale fu per giorni (e notti) presidiato da un ex-compagno di squadra, partito dall’Uruguay per stargli vicino. C’era un sentimento comune da salvaguardare.

 

Oggi viviamo una società individualista e narcisista e quando questo pervade le organizzazioni diventa un problema.

 

Nelle aziende questo è un freno tremendo, figlio della cultura degli obiettivi individuali che ha fatto e sta facendo danni enormi.

 

Focalizzati su ciò che è meglio per il singolo si perde di vista il bene complessivo.

 

L’individualismo, abbinato all’assenza di un perchè condiviso che funga da “stella polare” è alla base della crisi di molte organizzazioni.

Come poter cambiare tutto ciò?

Con tre azioni.

La prima è avere chiara l’essenza dell’organizzazione.

Perchè l’organizzazione ha senso di esistere? Cosa vuole portare alla comunità?

La seconda è ammettere alla comunità le persone giuste. Le capacità contano, ma fino ad un certo punto.

La motivazione è la qualità più determinante.

L’ultima è iniziare a valutare le persone non tanto per quanto fanno direttamente ma per quanto aiutano gli altri membri della squadra.

Facile? No.

Possibile? Sì, e che c’è chi lo fa …

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